Il mercato del filo tra incertezze, concorrenza, sostenibilità: a confronto con P. Spina, Steelgroup
Il settore del filo e dell'acciaio in genere sta attraversando un periodo di grande incertezza e cambiamenti. Abbiamo parlato con Pietro Spina, Sales Manager presso ITA S.p.A. (Steelgroup), per comprendere meglio la situazione attuale del mercato, le sfide della concorrenza e le ripercussioni di questa corsa collettiva verso la sostenibilità sulle trafilerie.
Facciamo un passo indietro di qualche mese. Anzitutto, com'è andata la fiera wire per Steelgroup?
La fiera è andata molto bene - in termini di relazioni. C'era grande attesa che il mercato si riprendesse subito dopo, ma purtroppo questo non si sta concretizzando. Il nostro settore di sbocco che sta soffrendo di più è quello delle costruzioni, il che impatta negativamente sulla domanda di trefoli e funi, ad esempio per trazione e carroponti. L'automotive ha registrato numeri non particolarmente negativi fino ad aprile/maggio, per poi cominciare a calare, mentre il settore elettrico sta andando discretamente grazie alla spinta verso l'ammodernamento delle reti.
Qual è l'attuale situazione della concorrenza nel mercato delle trafilerie?
Con i volumi in calo per tutti, c’è una concorrenza spietata tra le trafilerie, che lottano per garantirsi i minimi produttivi necessari a coprire i costi strutturali. La pressione dai Paesi extra-UE è fortissima, anche a causa di pratiche sleali come triangolazioni commerciali ed evasione delle barriere in vigore. La situazione insomma è molto tesa; a livello UE rischiamo di perdere buona parte della nostra produzione locale. C’è un sistema di quote, sì, ma sono molto ampie. L’unica soluzione sarebbe creare serie barriere di salvaguardia locali, che non significa chiudere i mercati, ma difendere l’esistenza dell’UE come attore sul palcoscenico mondiale dell’acciaio. Purtroppo però a livello europeo siamo molto disuniti. In alcuni consessi, se parli di inasprire i dazi ad esempio sulla Turchia o sull’India, siamo molto lontani dall’unanimità.
A livello di prezzi?
I nostri clienti, lavorando meno, si aspettano sconti e riduzioni, che però fatichiamo molto a concedere. Le nostre acciaierie fornitrici hanno subito perdite importanti di volumi e devono pure finanziare la riconversione dei loro impianti in chiave più sostenibile, dunque a loro volta non possono abbassare i prezzi delle nostre materie prime. Tutto questo crea un effetto boomerang.
Già che parliamo di sostenibilità, come gestisce questo aspetto Steelgroup?
A livello di trafileria, le nostre emissioni sono già basse rispetto a un’acciaieria. Per una questione di responsabilità sociale, sostenibilità e circolarità sono temi che da noi hanno sempre trovato riscontro: abbiamo implementato e stiamo ancora mettendo a terra tutta una serie di operazioni per ridurre la nostra carbon footprint, ad esempio attraverso soluzioni di recupero del calore interno. Per quanto riguarda le certificazioni, al momento una delle aziende del gruppo Steelgroup è certificata per la CO2. Sulle altre abbiamo un po’ frenato, perché non ci sono standard univoci; quindi abbiamo deciso di procedere, per il momento, con valutazioni interne - con l’appoggio di un consulente, naturalmente - sommando i nostri consumi ai dati comunicati dai nostri fornitori, la gran parte dei quali ha scelto di certificarsi. I clienti più grandi ci richiedono sempre più di conoscere queste informazioni.
Se parliamo in generale, si tratta comunque a mio parere di un processo molto doloroso.
Doloroso in che senso?
Pensiamo alle acciaierie. Per loro si tratta di investimenti molto pesanti, che possono implicare anche fermi di produzione. E a livello politico aiuti zero. Mettendo per un attimo da parte le ragioni di base, tutta questa spinta alla riconversione comporta uno sforzo che viene ripagato in larga parte dai consumatori finali, in termini di inflazione e prezzi maggiorati.
Quali sono le previsioni per il futuro?
I numeri purtroppo non fanno presagire cambi di rotta fino al prossimo anno.
Come export, qual è la vostra quota attuale?
Oggi la nostra percentuale di export è pari a circa l’80%, leggermente cresciuta rispetto al passato. Tra tutti, i Paesi del continente americano ci stanno ancora dando qualche soddisfazione.
Date tutte queste premesse, il vostro piano di investimenti ha subito una battuta d’arresto?
Un rallentamento direi, ma sta comunque continuando. La lungimiranza della proprietà, la famiglia Beri, che negli ultimi anni non ha mai ripartito gli utili ma li ha sempre reimmessi nei canali aziendali, è stata provvidenziale in questo frangente, perché ci ha permesso di continuare ad investire, seppure ad un ritmo ridotto, anche in questa fase così complicata.
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